Aggiornato il 24/10/2022

 

Il termine “nurturing”, tradotto in italiano, significa a grandi linee: “prendersi cura, proteggere durante la crescita” o anche “aiutare e incoraggiare lo sviluppo”.

Di queste definizioni generali il linguaggio tecnico del marketing fa propri gli aspetti di cura e ascolto e ne incorpora la dimensione più propriamente proattiva, quella intesa ad affermare e favorire nel tempo il replicarsi di un’esperienza positiva: utile, rilevante, coinvolgente – in questo caso una esperienza di acquisto e di consumo.

Si parla allora di lead nurturing, intendendo le azioni che i marketer pensano, programmano ed eseguono per convertire un lead in un cliente e, nel migliore degli scenari possibili, anche in un promotore.

Se, come indicano le statistiche, addirittura il 96% dei visitatori del sito web di un brand non è (ancora) pronto per l’acquisto una strategia di lead nurturing può giocare un ruolo fondamentale nel guidare il visitatore in un percorso di progressiva conversione.

Ma per implementare azioni di lead nurturing che siano efficaci su larga scala è necessario dotarsi degli strumenti più appropriati. E qui entra in gioco la marketing automation, l’insieme di soluzioni tecnologiche e di metodologie grazie alle quali è possibile gestire automaticamente processi di marketing e campagne multifunzionali su più canali. Già nel 2015 il 57% dei professionisti del marketing affermava di individuare nel lead nurturing la funzionalità più utile dei software di automazione.

L’unico modo per massimizzare il ROI attraverso azioni di marketing è convertire ogni possibile lead. Ma farlo richiede la raccolta e la categorizzazione automatizzata di grandi, spesso enormi, quantità di dati. L’alternativa manuale, semplicemente, non è più praticabile: gestire migliaia di contatti al mese senza automatizzazione significa sprecare tempo prezioso e sacrificare risorse che potrebbero essere impiegate su attività di maggior valore.

 

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Lead nurturing: concetti, pratiche, strumenti

Spiegare cos’è il lead nurturing e perché è importante per tutte le aziende chiama in causa una vera e propria costellazione di concetti, pratiche e strumenti che nel corso degli ultimi anni hanno caratterizzato l’evoluzione del digital marketing.

Iniziamo dando alcuni punti di riferimento: il lead nurturing può essere definito sotto due aspetti principali:

  • È il processo di valorizzazione delle relazioni brand-cliente che attraversa ogni fase del customer journey.
  • È un processo di comunicazione, organizzato con l’obiettivo di trasformare il “potenziale” cliente in un cliente “permanente”.

Combinando queste due definizioni, il lead nurturing finisce per ricomprendere tutte le interazioni che avvengono tra due fasi del percorso di acquisto (fase iniziale e fase finale, dove la fase finale deve però essere intesa anche come nuovo incipit di conversazione, all’interno di un ciclo di vita del consumo che mai come ora si discosta dalla rigidità normativa del vecchio funnel). Queste fasi corrispondono ad altrettanti stati del consumatore, nello specifico del consumatore digitale: la fase del visitatore, vale a dire la fase iniziale, e la fase del cliente, cioè la fase finale.

Quando l’utente-visitatore diventa finalmente cliente avviene un passaggio di stato. Le persone che lavorano nel team marketing devono organizzare le loro attività per gestire nel modo migliore questo passaggio – in realtà articolato in una miriade di passaggi ramificati.

 

Lead nurturing e customer nurturing, per massimizzare il ROI sui clienti acquisiti

Non solo, il lead nurturing si sovrappone al customer nurturing, riconvertendosi senza soluzioni di continuità in un altro sistema di azioni, questa volta tese, più che a creare occasioni di conoscenza preliminare, a consolidare e mantenere vitale un rapporto già esistente. Il nurturing di cui il brand deve farsi carico è destinato ad essere alimentato per tutto il tempo in cui i clienti rimangono in contatto l’azienda, e, per i brand più lungimiranti, anche dopo.

Eppure, anche se i risultati sono incontestabili, sembrano esistere ancora delle resistenze: pensiamo, per esempio, al fatto che solo il 29% dei brand investe in azioni di lead generation dopo l’acquisto iniziale (a fronte di un 81% che investe regolarmente sul “prima”).

Niente di più controintuitivo: non solo i clienti esistenti sono più propensi ad acquistare di nuovo rispetto a nuovi lead, ma sarebbe un imperdonabile spreco del tempo, dell’impegno e del denaro che sono stati spesi per acquisirli non cercare di fidelizzarli e un errore marchiano rinunciare a massimizzare il ritorno su ogni singolo cliente.

È altrettanto vero, d’altra parte, che ogni lead che non si converte, a un certo punto di un un futuro prossimo, è una spesa “vana”: sta assorbendo, senza produrre effetti concreti, le risorse riservate alle attività di marketing. Per questo, far crescere numero e soprattutto qualità dei lead è ormai diventata una priorità, tanto che il 48% delle aziende concorda nel ritenere vantaggioso un nurturing a “ciclo lungo” sulla maggior parte dei loro lead.

 

Lead nurturing: creare coinvolgimento e attivare relazioni pertinenti

Aggiungiamo un altro elemento a quanto abbiamo già scritto per dimostrare l’importanza del lead nurturing all’interno dei progetti di marketing: le iniziative più efficaci di lead nurturing creano engagement perché, per loro stessa natura, sono inevitabilmente pertinenti. Proviamo a chiarire il concetto.

Se il 54% degli email marketer afferma che aumentare il tasso di coinvolgimento è la prima delle loro preoccupazioni ciò che sembra funzionare meglio è allineare specifici contenuti a determinate fasi del customer journey (vale a dire essere pertinenti). Sapere in quali stage si trovano i potenziali clienti lungo il processo di acquisto (e magari per quanto tempo e con quale frequenza) e fornire contenuti che soddisfino le loro esigenze attuali (sia che si tratti di annunci, pagine web, email o altro) è di gran lunga il modo più efficace per avvicinarli di un passo all’acquisto.

Tanto è vero che targettizzare gli utenti con contenuti rilevanti rispetto alla posizione che occupano nel loro “viaggio” produce tassi di conversione medi superiori del 73%.

Creare coinvolgimento e attivare relazioni pertinenti (che qui è un altro modo per dire relazioni “personalizzate”) sono le due capacità che rendono oggi le strategie di lead nurturing assolutamente irrinunciabili. Il lead nurturing – supportato, come diremo in seguito, dal marketing automation – offre infatti ai brand le categorie concettuali e gli strumenti grazie ai quali essi possono sfruttare le potenzialità della digitalizzazione, nel bel mezzo di quel “caos” (creativo e plurale) che è diventato lo spazio di confronto con i consumatori.

 

Lead nurturing in the “messy” middle: come prosperare nel caos

Il famigerato funnel si è ormai talmente articolato da esplodere in un messy middle, in “uno spazio di mezzo disordinato” (da qui il “caos” in conclusione del precedente paragrafo), che per primo Google ha descritto come rappresentazione grafica del disordinato e (forse) imprevedibile processo decisionale attraverso il quale i consumatori arrivano, o non arrivano, all’acquisto.

Perché, fermo restando l’aleatorietà di qualsiasi formula che pretenda di prescrivere i comportamenti di acquisto, l’unica evidenza su cui i marketer possono ragionevolmente contare oggi è che tra l’attivazione (trigger) e l’acquisto vero e proprio esiste una complicata rete di punti di contatto (touchpoint), differenti da persona a persona.

 

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Gianluca Diegoli: dal funnel al customer journey

Sul magazine di Marketing Arena, Gianluca Diegoli scriveva, qualche anno fa, in un articolo intitolato Di funnel e di niente:

“In realtà, in nessun momento della storia buona parte del customer journey è stato così tanto determinato dal cliente e così poco dalle aziende.”

Diegoli rincarava poi la dose, sconfessando, innanzitutto, i poteri “magici” dell’oggetto funnel, la cui utilità coincide sostanzialmente con la funzione che gli compete, cioè “quella di de-scrivere come supportiamo il cliente nel purchase path, con quali contenuti, distribuiti su quali dati di target e su quali strumenti.” La conclusione che ne conseguiva era chiara e spostava decisamente il focus sui comportamenti, sfuggenti e spesso imperscrutabili, dei consumatori: il funnel non può essere in nessun modo utilizzato come strumento prescrittivo perché “mai come oggi il customer journey ha tanta importanza – oltre che tante modalità e dati per essere analizzato, proprio dal marketing, in collaborazione con tutte le altre funzioni aziendali.”

 

L’esperienza minima di Marco Cordioli

Ne La via del marketing per la trasformazione digitale, Marco Cordioli parla invece di esperienza minima per indicare “quando una successione progettata, di contenuti e interazioni, fa da ponte tra un bisogno o desiderio e una maggior consapevolezza e motivazione all’acquisto.” (E questa descrizione sembra rimandare a quella serie di istruzioni incanalate nei workflow, i flussi di lavoro che nelle piattaforme di marketing automation sono responsabili della distribuzione dei messaggi profilati.)

Cordioli descrive così i passaggi attraverso i quali prende forma l’esperienza minima: “l’annuncio che intercetta una ricerca (A), seguito da un’informazione che soddisfa il bisogno di conoscenza (B), seguito dall’invito a un approfondimento (C) diventano una singola esperienza minima. Tutti contenuti passanti e finalizzati che spostano il fruitore da A a B, da B a C e lo trasformano. Nella forma, la struttura di un’esperienza minima è sempre composta da una fonte di traffico, un elemento di scambio e una conversione. Inoltre, è “importante che il messaggio che invita alla prima azione sia atteso (o rilevante), personalizzato e significativo”.

Se alla base del successo delle strategie di lead nurturing c’è la capacità, lo abbiamo scritto sopra, di essere pertinente è proprio perché, come scrive Diegoli è ormai maturata la consapevolezza della fine del funnel come rappresentazione grafica di previsioni che si auto avverano. E se i passaggi di stato, che avvengono attraverso le esperienze minime descritte da Cordioli, sono resi azionabili grazie ai messaggi, allora l’enfasi va posta proprio sui contenuti, attraverso i quali (e il cerchio si chiude) il lead nurturing può concretamente essere messo a terra.

 

Inbound marketing, marketing automation e lead nurturing: i vantaggi strategici di una sinergia

Il lead nurturing, ormai dovrebbe essere chiaro, è molte cose: è anche momento costitutivo di quello che Seth Godin per primo ha chiamato “permission marketing”. Il permission marketing è quell’approccio, reso indispensabile dalla digitalizzazione, che riconosce ai potenziali consumatori il diritto di decidere, rispondere, partecipare: anche il diritto (Godin parla di “potere”) di ignorare il messaggio pubblicitario, se lo vogliono.

Il marketing che chiede il “permesso”, insomma, contrapposto al “marketing dell’interruzione” che aveva per lo più caratterizzato fino agli inizi del nuovo millennio le comunicazioni dei brand. Detto altrimenti, il permission marketing riguarda il privilegio – in nessun modo un diritto – di raggiungere il proprio target con messaggi appropriati, personali e significativi.

E il lead nurturing si inscrive appunto in questa piccola rivoluzione copernicana che pone al centro del sistema della comunicazione proprio i consumatori, con i quali, dopo che se ne è catturata l’attenzione, l’obiettivo diventa quello di costruire relazioni il più possibile equilibrate e aperte. In che modo? Fornendo loro i contenuti “giusti al momento giusto”: il lead nurturing è dunque, anche, un marketing di contenuti sviluppati e distribuiti secondo una logica tipicamente Inbound.

Tra l’altro, l’Inbound marketing, la cui ossatura portante consiste nella creazione e distribuzione di contenuti, non copre solo un’ipotetica awareness cristallizzata nella volta celeste di quell’unico momento inaugurale, come vorrebbe il funnel, ma nel messy middle di Google è concepita come branding e accompagna, con diversa intensità, tutto il customer journey.

 

La marketing automation a supporto delle strategie di lead generation

 È innegabile: l’automazione consente di ottenere migliori risultati. L’80% dei professionisti del marketing che utilizzano software di automazione generano più lead; di queste lead, il 77% dei professionisti che ha adottato la marketing automation ne converte in misura decisamente maggiore. Il marketing oggi, basato sui dati, multicanale, fluido, reattivo, non funzionerebbe senza questi strumenti.

Le piattaforme di marketing automation, che si fondano sulla gestione di grandi quantità di dati, rendono possibile la realizzazione di comunicazioni flessibili su larga scala, supportando in modo efficace le strategie di lead nurturing di cui i brand hanno oggi un disperato bisogno. In questo modo, non solo la relazione con i potenziali clienti può essere arricchita di contenuti via via più personalizzati ma anche di livelli di interattività progettati sulle abitudini digitali dei singoli utenti.

Le strategie di lead nurturing, messe a terra grazie agli strumenti di marketing automation, non solo consentono di interagire con i clienti, ma anche di utilizzare i dati raccolti per valutare il loro interesse e monitorarne il comportamento in un’ottica di ottimizzazione continua e di aumento costante del ritorno sull’investimento (ROI).

Proviamo adesso a individuare i nessi causali che tengono uniti lead generation, inbound marketing e marketing automation: dietro impulso delle azioni di inbound marketing, che si esprimono secondo una content strategy, vengono implementate iniziative di lead nurturing (oltre che di lead generation): i lead richiedono attenzione e risorse sufficienti durante tutto il percorso d’acquisto per procedere a successive (e progressive) conversioni. Per mettere in atto strategie di lead nurturing è necessario adottare strumenti di marketing automation, che consentiranno, prima, di identificare i lead qualificati e poi di veicolare su ogni contatto i contenuti più adatti.

 

Lead nurturing e marketing automation: i video personalizzati per fornire le risposte di cui i clienti hanno bisogno

Un’ultima, fondamentale, precisazione: se inbound marketing e marketing automation danno i loro risultati migliori proprio in sinergia con le strategie di lead generation è soprattutto grazie all’alto livello di personalizzazione e di interattività incorporati dai contenuti. Infatti, un programma di lead nurturing di successo concentra gli sforzi di marketing e comunicazione sull’ascolto delle esigenze personali dei potenziali clienti e sul fornire le informazioni e le risposte di cui hanno effettivamente bisogno. Soltanto in questo modo è possibile creare fiducia, aumentare la consapevolezza del brand e mantenere una relazione vitale, non solo fino a quando i potenziali clienti sono pronti per effettuare un acquisto, ma anche successivamente.

Una soluzione particolarmente efficace all’interno della lead generation, che risponde a questa urgenza di personalizzazione, è costituita dai video personalizzati.

 

I video personalizzati Doxee: una narrazione autentica e condivisa

I video personalizzati Doxee, in particolare, sono in grado di far emergere la ricchezza nascosta nei dati dei clienti, trasformandoli in esperienze video personalizzate e interattive.

Doxee Pvideo® consente la realizzazione di video davvero unici, ricchi di funzionalità interattive e personalizzabili al massimo grado perché composti da scene selezionate in base ai dati di ogni singolo destinatario, ricche di testi e banner personalizzati, immagini scelte ad-hoc, voce personalizzata.

La lead generation davvero in grado di creare customer experience positive e soddisfacenti è quella che coinvolge i clienti potenziali in relazioni di valore. Ma perché siano di valore e ricche di significato queste relazioni devono necessariamente essere costruite a partire dalla vita reale delle persone e dalla narrazione autentica e condivisa di queste vite. I video Doxee fanno proprio questo: ricostruiscono un mondo che corrisponde a quello dei clienti.