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Retail marketing personalizzato: cross selling e omnicanalità al servizio della Customer Satisfaction

retail marketing personalizzato

Articolo aggiornato al 30/06/2022

Perché retail marketing personalizzato?

Uno dei momenti cruciali in cui il brand si gioca reputazione e profitti è quello della vendita al consumatore finale: dove la Customer Experience, testata sui diversi touchpoint disseminati lungo tutto il customer journey assume, per così dire, quantità e consistenza, concretizzandosi nell’acquisto. Una variabile chiave è il Retail Marketing personalizzato.

Per riuscire incontrare il consumatore nella fase della decision, infatti, avvenga essa in un negozio fisico o in uno virtuale, retailer e marketers hanno dovuto adottare strumenti non convenzionali e imparare a utilizzate metodologie tradizionali in modi innovativi, in primo luogo cross selling e omnicanalità.

In un mondo rivoluzionato dall’avvento della comunicazione digitale, anche il Retail marketing ha subito trasformazioni radicali ed è oggi attraversato, come tutte le altre aree del business, dal trend della personalizzazione.

Proviamo a fare un po’ di chiarezza, partendo dal principio.

 

 

Digital Disruption: innovazione tecnologica e business

Le Big Bang Disruptions, così Larry Downes e Paul Nunes chiamano le innovazioni introdotte e prodotte dalla Digital Transformation, differiscono ontologicamente da altre innovazioni “più tradizionali”.

I Big Bang disrupters hanno da subito voluto competere, contemporaneamente e senza cautele o timori reverenziali, su tutte e tre le variabili strategiche su cui, secondo Michael Treacy e Fred Wiersema (The Discipline of Market Leaders, 1995) è necessario investire per ottenere un vantaggio competitivo: basso costo, innovazione costante, personalizzazione delle offerte.

Sono entrati sul mercato con prestazioni migliori, a un prezzo inferiore e con maggiori potenzialità di personalizzazione. Il cambiamento è avvenuto nel giro di poche settimane, coinvolgendo da subito un target molto ampio (non limitandosi, quindi, a quei consumatori considerati poco redditizi e fino a quel momento trascurati). La differenza sta proprio qui, nel tempo vertiginoso con cui questo cambiamento continua ad accadere: gli effetti (economici, sociali, culturali) sono praticamente immediati, interi settori possono essere spazzati via e ricostruiti nel giro di pochi mesi, settimane, forse giorni.

Lo smartphone viene citato spesso come esempio evidente di tecnologia disruptive: in un periodo incredibilmente breve è riuscito a rimpiazzare una molteplicità di device che fino a quel momento avevano vissuto in modo autonomo, assumendo su di sé le loro funzioni e migliorandole.

Lo stesso Steve Jobs lo presentò come un prodotto capace di riunire in sé tre altri diversi prodotti: “un widescreen iPod con touch controls, a rivoluzionario mobile phone e un dirompente internet communications device”.

Nel pieno della Disruption Era, per riuscire a governare e sfruttare le potenzialità di ecosistemi tecnologici sempre più affollati e connessi, il marketing – e il Retail marketing (e come vedremo il retail marketing personalizzato) in particolare – deve ripensare strategie, cambiare metodologie, introdurre metriche più accurate e, a un livello più profondo, riformare la scala delle priorità per dare nuovo senso a processi e mission aziendali. Deve creare nuovi momenti di incontro significativi con il consumatore e rileggere la customer experience in chiave di una sempre più raffinata, empatica, personalizzazione.

In breve: deve imparare a guardare le persone (i potenziali clienti) con occhi diversi.

Preziose a questo proposito le parole di Brian Solis, Principal Analyst di Altimeter Group: “L’esperienza del cliente è la somma di tutti i momenti di engagement nel customer’s journey. Non si concentra in un singolo momento, è tutti i momenti insieme. La Digital disruption umanizza oggi l’esperienza dei clienti perché ci obbliga a vedere le “briciole” che le persone lasciano sui loro passi, i comportamenti che esibiscono e, ancora, le loro preferenze e i loro interessi… consentono alle aziende di vedere le persone per quello che sono e chi vogliono diventare”.

Mass Personalization: molto più che customizzazione

Nella sua Consumer Review Made-to-Order – The rise of mass personalization, Deloitte fa risalire le origini della personalizzazione a un’epoca imprecisata, precedente la Rivoluzione industriale, quando i beni di consumo erano prodotti manualmente, pezzi unici, indefinitamente declinabili sulle esigenze del compratore. Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale agli anni ’60, la globalizzazione e le economie di scala creano le condizioni per lo sviluppo del mercato di massa.

È tra gli anni Sessanta e Ottanta che l’individuo ricomincia a guadagnare centralità.

Sembra preistoria eppure ogni stadio di questa rincorsa temporale conduce alla società contemporanea così come la conosciamo oggi, digitale ed ininterrottamente connessa.

Le aziende oggi non solo possono dotarsi dei mezzi per misurare specificamente ciò che ogni singolo consumatore desidera, ma possono anche integrare processi e risorse per fornirglielo in soluzioni sempre più personalizzate. Tuttavia, in ecosistemi fluidi e policentrici come quelli che caratterizzano la nostra quotidianità, anche la definizione di personalizzazione è in continua, inarrestabile evoluzione. Per qualcuno e per qualche tempo ha significato “esclusività”: i prodotti personalizzati come status symbol. Una esclusività tradizionalmente costosa che ha segnato il passo quando gli sviluppi tecnologici hanno reso accessibili le comunicazioni, i prodotti e i servizi personalizzati.

Oggi i consumatori sono in grado di lasciare un segno (spesso la loro firma digitale), per esempio partecipando alle decisioni produttive dell’azienda che intende immettere sul mercato nuovi gusti di patatine o contribuendo a una data campagna di marketing attraverso contenuti da loro generati.

Ci troviamo cioè in una fase di personalizzazione di massa, in cui i diversi items sono prodotti in serie ma possono essere modificati dall’azienda per soddisfare le preferenze dei consumatori. Questo processo non comporta alcun input da parte delle persone oltre alle informazioni relative al profilo o alle circostanze dello shopping. A partire da qui, alcuni brand stanno sviluppando strategie di customizzazione di massa, che consentono al consumatore di decidere tra alcune opzioni limitate per modificare prodotti realizzati in serie. Il traguardo ideale (temporaneo, ça va sans dire) è il quasi chimerico bespoke (traducibile in italiano con “su misura”), in cui il consumatore è coinvolto dall’inizio alla fine del processo per creare un prodotto o un servizio unici.

Dalla Customer Satisfaction alla Customer Experience

Le aziende devono procedere oltre strategie di personalizzazione customizzanti che si limitano a prevedere quale prodotto un consumatore potrebbe voler acquistare. La vera personalizzazione ha successo quando le aziende non solo soddisfano l’individuo, ma lo fanno sentire riconosciuto. L’84% dei clienti afferma che essere trattati come una persona, non un numero, non è solo molto importante, è decisivo (fonte: Salesforce).

Parlare di Customer Satisfaction consente senza dubbio un’osservazione puntuale delle realtà, grazie alla possibilità di usare indicatori quantitativi. Se si intende però comprendere in profondità la portata dell’incontro del consumatore con un brand, un prodotto o un servizio potrebbe essere funzionale inserire concetto e pratiche all’interno del discorso più esteso e totalizzante tipico dell’analisi qualitativa della Customer Experience. Per utilizzare una felice espressione di PwC, network global che raggruppa aziende specializzate in servizi di consulenza: “Experience is everything”, l’esperienza (del consumatore) è tutto.

In un suo recente report PwC sintetizza in sei punti le evidenze rilevate in uno dei suoi ultimi sondaggi:

  1. Gradimento per il premium price, che esprime attraverso un più alto valore commerciale, la percezione da parte del consumatore di una qualità superiore del prodotto o servizio. In cambio di un’esperienza eccezionale il 63% dei consumatori statunitensi afferma di essere disposto a condividere con il brand più informazioni.
  2. Esperienze non soddisfacenti allontanano i clienti. Un consumatore su tre (32%) afferma di abbandonare un marchio che ama dopo una brutta esperienza;
  3. I “must do” delle aziende sono centrali nella esperienza d’acquisto. Il 70% dei consumatori attribuisce grande importanza ad aspetti considerati assolutamente imprescindibili per una soddisfacente customer experience: velocità, convenienza, dipendenti disponibili e servizio cordiale;
  4. Priorità al fattore umano. L’interazione con le persone conta, eccome: l’82% dei consumatori negli Stati Uniti e il 74% dei consumatori non statunitensi la considerano fondamentale, nei negozi fisici e sulle piattaforme online;
  5. Non esagerare con l’ossessione generazionale. Ciò che contribuisce alla Customer Experience è trasversale alle generazioni. Per conquistare anche i consumatori della cosiddetta “generazione Z” si tratta piuttosto di declinare intensità e velocità sui loro ritmi: la convenienza — il passaggio senza soluzione di continuità da tablet a smartphone, da desktop a umano — è, per esempio, data per scontata;
  6. L’esperienza è la strategia. Esiste ancora un gap da colmare per migliorare la customer experience: il 54% dei consumatori statunitensi afferma che c’è ancora molto da fare.

Una indagine di Epsilon, tra i maggiori player nel campo della marketing innovation, ha evidenziato come il 90% dei consumatori tra quelli intervistati trovi decisamente attrattiva la possibilità di avere un’esperienza personalizzata e l’80% si dichiara molto più propenso nell’acquistare da un brand che abbia già un programma personalizzante nelle sue offerte commerciali.

Tutte queste statistiche sembrano concorrere a rafforzare una visione customer-centric del processo di vendita e a tracciare contemporaneamente un nesso tra customer satisfaction, customer experience e personalizzazione. Possiamo ritenere vera questa situazione anche nel Retail? Possiamo parlare di retail marketing personalizzato?

Il retail marketing personalizzato: in cosa consiste

Cos’è il retail marketing personalizzato? La personalizzazione nella vendita al dettaglio processa insiemi di dati (in grandi quantità nel caso di brand particolarmente ricchi o lungimiranti) con l’obiettivo di progettare e sviluppare esperienze di acquisto, sia offline sia online, che siano utili, ricche, coinvolgenti.

In un contesto estremamente multiforme e articolato come quello che abbiamo descritto in apertura di questo articolo, qualsiasi iniziativa intendano intraprendere, i retailer si trovano davanti un programma in tre mosse:

 

Il processo che porta ad un retail marketing personalizzato è sempre stato, ma ora lo è più che mai, uno snodo cruciale. Tra le strategie proprie del Retail Marketing personalizzato che rielaborano il journey in chiave dialogica, pluralistica, e customer-centric troviamo cross-selling e omnicanalità.

Cross-selling

Molte delle tattiche a cui abbiamo accennato nel paragrafo precedente prevedono un impegno nella vendita “incrociata” e possono essere tradotte senza soluzione di continuità dall’offline all’online e viceversa, in perfetta coerenza con un marketing non convenzionale.

Nel dettaglio:

Laddove il cross-selling offre un prodotto complementare, l’upselling ne offre un altro che rappresenta un upgrade, o una versione premium. Tendenzialmente l’upselling è più efficace del cross-selling: vendere qualcosa in relazione a ciò che un cliente ha già acquistato è meno difficile che vendere qualcosa che è complementare, ma comunque diverso.

Omnicanalità

Sono sempre di più le aziende che adottano un approccio omnicanale per riuscire a intercettare le traiettorie del consumatore (potenziale cliente o già acquisito) lungo tutto il processo d’acquisto, in diversi momenti, in diversi canali (in gran parte online ma anche offline) e in diverse forme: un consumatore omnicanale. Nel suo report State of the connected customer, Salesforce mette in evidenza come sempre di più i consumatori si aspettino di procedere nel loro customer journey senza soluzione di continuità tra vari canali, digitali e offline: i clienti percepiscono come 3,7 volte più rilevante le transizioni che permettono passaggi fluidi tra i canali (ad esempio, online in negozio).

Focus sulle aziende italiane: a che punto siamo

Secondo i dati forniti dall’Osservatorio Omnichannel Customer Experience, oggi sono ormai 31,7 milioni (il 60% della popolazione di età superiore a 14 anni) gli italiani che utilizzano diversi touchpoint digitali e fisici per entrare in contatto con il brand (attraverso punti vendita, sito internet, social media, advertising). A fronte di un consumatore che dimostra entusiasmo e curiosità verso le possibilità di mercati ormai pienamente omnichannel e possiede le competenze digitali necessarie ad esplorarli, lato aziende la situazione è ancora decisamente immatura. Anche se la quasi totalità dei brand italiani raccoglie e immagazzina i dati di base (anagrafica o contatto: 98%, storico di acquisto: 86%; dati provenienti da sistemi di analytics su canali proprietari: 79%, da indagini di mercato e customer satisfaction: 76%; e risultati delle campagne pubblicitarie online: 74%), quasi un quarto delle aziende non ha gli strumenti necessari per organizzare le informazioni raccolte sui clienti in un quadro unitario.

Verso il customer genome

Omnicanalità, cross-selling e upselling declinano sul retail la tendenza alla personalizzazione, in un ambiente fisico o virtuale, con formule spesso originali rispetto alle metodologie tradizionali. Il trend è il retail marketing personalizzato ed è destinato a complicarsi e a diventare ancora più interessante da raccontare, coinvolgendo le strategie di marketing in una ristrutturazione permanente del customer’s journey.

Tra le prospettive più futuristiche della personalizzazione c’è quella elaborata da Accenture, che ha addirittura mutuato un termine dal linguaggio della genetica per descrivere questa nuova situazione: customer genome.

Il customer genome è un modello che fa corrispondere il DNA del prodotto agli attributi che un consumatore individua per quel prodotto. A loro volta questi attributi fornirebbero una vasta libreria di dati descrittivi utili a conoscere perché le persone scelgono ciò che scelgono. A veicolare questi attributi descrittivi, facendoli, per così dire, emergere sulla superficie della comunicazione pubblica sarebbero l’insieme delle interazioni (app mobile, e-mail, interazioni sui social, sondaggi, eventi, ecc.). Un’analisi delle interazioni, dei messaggi, dei dati (con una verticalizzazione vertiginosa sui dettagli) potrebbe contribuire a far luce sulle preferenze, le motivazioni e le passioni di ciascun cliente.

La combinazione degli attributi in tutte le interazioni crea il genoma del cliente, un profilo vivente degli aspetti più singolari di ogni individuo, colto in istantanee successive, nel suo evolversi in tempo reale. Il risultato sarebbe un’esplosione di informazioni senza precedenti che per poter essere gestita dovrebbe essere trattata con metodi molto avanzati, come l’intelligenza artificiale.

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